Una storia, tante storie… @palmasco
L’arte dei tic. L’inserto. La fettuccia di mondo conosciuto – dicevo. A proposito m’è capitata una storia affascinante, almeno per me, una storia contemporanea ed esemplare. Ne ho già scritto, al momento soltanto privatamente, per liberarmi del materiale. Ma ne posso accennare di nuovo qui, senza timore di spaccarla, contemporanea e adatta a tutti noi come mi sembra che sia.Aleardi10 è una casa, la mia casa, e ogni tanto ospita le parole e la voce di amici. Palmasco che si esprime di solito con le immagini ieri su Friendfeed ha scritto una bella storia, di quelle che mentre leggi non riesci a smettere, non volevo che andasse persa nel flusso e per questo la rimetto qui. E’ un copia incolla fatto con il permesso dell’autore.
Per raccontare quelle storie, che ti trascinano, che ti portano…
Come per esempio le raccontavano a “RaiStereoNotte” tanti anni fa, alla radio, di notte, dj in libertà che partivano con una suggestione dentro la quale poteva finire la lettera di una lettrice, un incontro in giornata, un pezzo di Lou Reed di 14 minuti. A teatro quelle storie le racconta Paolo Rossi, piene di tangenti, appese ad un filo elastico, che appare e scompare, dipende dalla luce. Per raccontare quelle storie, dicevo, che ti portano via, occorre forse un tic.
Leggevo per mio figlio un compito di scuola, “La scomparsa di Majorana” di Sciascia. Già questo, io che non ho stima particolare per le maestre, che le ammiro come categoria, che rispetto il loro lavoro, ma non ne ho mai incontrata una che stimo e ammiro, già questa maestra che in quasi tre anni di scuola non mi aveva dato motivi particolari per scollarla dall’immagine consueta che ho delle maestre, un’immagine neutra diciamo, indifferente, come si potrebbe avere per altri impiegati assortiti. Lei tira fuori un libro che è il racconto di una traversata per mare, da Napoli a Palermo, una notte – in cui sparisce l’allievo di Fermi, il geniale Majorana.
Un tic per raccontare quelle storie così che funzionino, pensavo, perché ogni storia che veramente mi sia piaciuta, è una che mi ha portato via, altrove, nella notte di RaiStereoNotte, oppure dentro l’alba pur di finire un libro. Una storia che ti porti altrove, non sai veramente dove ti potrebbe portare, meta sconosciuta, mezzi sconosciuti, quasi un salto nel buio, e non soltanto perché stiamo parlando di notte. Le storie di Paolo Rossi a teatro, per esempio, di solito le vedo in dvd nel pomeriggio, prima di cena, ma quelle non sai lo stesso dove vanno a finire, anche la ventesima volta che le rivedi, e sono un salto nel buio lo stesso. Il tic allora serve ad ancorarti. È il brandello di conosciuto che ti sostiene, che incoraggia con la sua sola presenza, la strana attitudine che quella notte ti porta ad assecondare la storia.
Storia raccontata con linguaggio difficile, il linguaggio dei documenti, non certo un’invenzione di Sciascia, ma sicuramente uno stile che lui ha coltivato e reso eloquente più di molti altri, soprattutto nella seconda parte della sua carriera di scrittore. Da quei documenti, dalla loro assenza e dai tic del loro linguaggio – i tic ancora, senza che io possa chiarire se sono una costante del mio linguaggio di stanotte o una presenza vera nel libro di Sciascia – l’autore rintraccia i movimenti di un’indagine mai eseguita, e le ragioni della scarsa confidenza della polizia nei metodi investigativi, e molto altro. Ecco maestra. Quanto m’hai sorpreso che hai assegnato questo libro ai ragazzi, quanto mi sei piaciuta. Libro difficile, insolito, dal linguaggio astruso.
L’arte dei tic. L’inserto. La fettuccia di mondo conosciuto – dicevo. A proposito m’è capitata una storia affascinante, almeno per me, una storia contemporanea ed esemplare. Ne ho già scritto, al momento soltanto privatamente, per liberarmi del materiale. Ma ne posso accennare di nuovo qui, senza timore di spaccarla, contemporanea e adatta a tutti noi come mi sembra che sia.
C’era la città dove ho vissuto parecchi anni, nella quale sono poi tornato per qualche visita sporadica, ma senza riconoscere quelli che erano stati i miei percorsi, al punto che ho finito per non tornarci più, a parte le difficoltà logistiche, per una mancanza d’interesse, in fondo, visto che la realtà attuale era completamente diversa da quanto avevo conosciuto. Una bella città del meridione, Palermo.
Raggiungerla in aereo, per dire, costa praticamente come andare a New York, tanto per dare un’idea delle dimensioni spazio temporali nelle quali si perdono le mie possibilità di una gita nei luoghi di una volta, ammesso che mi fosse tornato un interesse che invece non ho provato, come ho detto. Una sirena però mi suonava di continuo nella notte, portandomi verso una regione di dubbi – e questo ve lo devo confessare, è già linguaggio puro di RaiStereoNotte, e lo dico con una certa soddisfazione, almeno della trasmissione che ascoltavo io mentre studiavo per laurearmi, che ora credo che esista ancora, ma è cambiata parecchio, non so.
Regione di dubbi. Beh… finora non ho parlato del cinema, delle storie che ti trascinano nel cinema, ho parlato di libri, di musica – ne ho parlato davvero? no non credo, ma tanto è difficile parlare davvero di qualcosa, già è tanto che io provi a parlare, stanotte, che mi voglia sostituire all’ascolto, che abbia preso per mano io le storie e spero qualche tic 🙂 – e di teatro ho parlato, ma ancora non di cinema. Beh, per me una delle storie che più mi trascinano nella notte, al cinema, è proprio Apocalypse Now, di FF Coppola – m’è venuto in mente perché il protagonista, un soldato americano, viene accompagnato passo per passo verso le regioni del dubbio. Che poi a questo punto, in questo contesto, altro non è che una frase, una specie di tic, se vogliamo, al quale forse m’attacco io, ma penso che abbia anche un senso al quale aderiscono alcuni dei materiali che sto allineando qui questa sera, senza rete 🙂
Non c’erano ragioni né risorse, dunque, per prendere un aereo per Palermo e vagare per vicoli e palazzi e facciate e angoli che non hanno più risposto alle mie impressioni. Le sirene, che poi dopo un breve ripasso alla lunga coda a squame, di un colore vagamente azzurognolo, quando dico sirene vedo busti di donne nude, e capelli che scendono sulle spalle, quasi di alcuna attrattiva sessuale, perché sono voci che si aspettano da queste donne, parole – che invece non vengono mai.
La nave di Majorana, racconta Sciascia nel libro che leggo a mio figlio, per incarico della maestra, e solo perché lui essendo malato non può sentire il libro dalla viva voce di lei, che ci tiene che comunque lui non resti indietro e abbia conoscenza di questo libro, e ci ha quindi telefonato perché lo prcurassimo e glielo leggessimo – per la quale insistenza, gentile, delicata, la stimo parecchio, quasi fino al punto da provare per lei un leggero sentimento. La nave di Majorana corre nella notte da palermo a Napoli, nel ventre il suo passeggero gravato già di pesi insopportabili.
Raggiungere Napoli quindi sarebbe stato possibile, da lì prendere una nave per Palermo, arrivare la mattina prestissimo, alle prime luci sul mare, coi corrimano di legno incrostati di salsedine, umidi e unti, come una gita alle saline di Trapani, e vedere stagliarsi la sagoma possente di Monte Pellegrino che chiude la parte del golfo opposta al porto.
I tempi però. Troppo più lunghi.
Una mattina, creatura di internet come sono diventato, una specie di sirena con una coda di narrativa squamata, a forma di pesce, ma non più di quanto non lo siamo tutti che stiamo qui a inseguire delle storie – e non è mai detto se le storie che inseguiamo sono quelle che scrivono gli altri, o che linkano, che ci svelano con tocchi che noi non sapremmo fare, o se sono quelle che noi stessi abbiamo bisogno di andare a scoprire per raccontarle agli altri, per linkarle, perché in fondo è così che stiamo in rete gli uni con gli altri 🙂
Una mattina ho digitato sulla carta Google Maps di Palermo il nome della via dove ho abitato, ed ho spostato la mappa sulla vista reale, dei tetti e delle strade, delle facciate delle chiese. Bum!
Mi ricordo una piazza, la piazza dell’Olivella, che non era lontana da dove abitavo, ed era meta delle passeggiate. Si può passeggiare in qualsiasi città, ovviamente, e di passeggiate da ricordare ce ne sono per tutti i luoghi dove sono andato, ma certe passeggiate ripetute lo sono più di altre. Bene: piazza dell’Olivella, nella mia memoria, ha delle caratteristiche che non ho mai più ritrovato nelle visite che ho fatto alla città, fin quando le ho fatte.
Accade su Google Maps qualcosa di meraviglioso, come sapete bene, se state in rete il giusto, cioé tanto. Si vola sul territorio. Lo sguardo si fa acuto, come un rapace. Io penso che tanta acutezza venga dalle ragioni originarie di Google Maps, soprattutto nella sua versione territorio. Devi affittare una casa, scegliere un albergo, controllare una spiaggia, insomma devi preventivamente allontanare la minaccia che l’offerta per le tue vacanze sia poi diversa da quello che hai pensato di comprare. Si tratta meno dei soldi buttati, secondo me, che della rabbia di avere sprecato la tua settimana in un posto di merda.
Non voglio nemmeno nominare la velocità con la quale ti puoi spostare sul territorio attraverso Google Maps. Davvero il volo di un uccello. Sensazioni di leggerezza ed ebbrezze, oltretutto, sulle quali non mi soffermo adesso perché non vorrei andare per la tangente, per quanto quest’ultimo desiderio possa sembrare irriconoscibile come mio, stasera, che proprio mi sono lanciato in questa storia sul modello delle lunghe digressioni di una trasmissione radiofonico dei miei anni universitari, o di un certo tipo di teatro che ho amato.
Anche lì: raramente ho apprezzato e apprezzo il teatro italiano. Dimmi che sono snob, ci sono abituato. Certo mi ricordo un Pinocchio fatto da Carmelo Bene, che ho visto a Roma quando abitavo a Roma, che fu una cosa stranissima: era proprio, ma proprio esattamente, proprio come l’avevo immaginato io quand’ero bambino e lo leggevo. Prendi la nave di notte, nella quale Sciascia racconta che si trova un Majorana angosciato e turbatissimo, immagina che per fargli passare la malinconia di quella notte – ricordo che lui quella notte scompare per sempre.
Per fargli passare la malinconia di quella notte nella quale potrebbe essersi buttato a mare di nascosto, una creatura della fantasia, dell’immaginazione, dell’immaginario, gli avesse proposto, secondo un rituale magico, di ascoltare dalla vera voce di un bambino, come quel bambino s’immagina Pinocchio quando lo legge. Ecco: se quel bambino fossi stato io, un osservatore esterno che passasse da quella cabina, e non c’è motivo per cui non sia possibile se hai accettato l’ipotesi di una magia, un osservatore esterno che passasse da lì, e che conoscesse la versione teatrale del Pinocchio di Carmelo Bene, non avrebbe notato alcuna differenza 🙂
Ammetto che la cabina a questo punto risulterebbe molto più affollata di quanto Majorana abbia mai desiderato, di sicuro, e di quanto Sciascia dica del suo carattere schivo e introverso. Aggiungerei forse anche Memè Perlini come esempio di spettacoli che mi hanno sedotto, visto che si parlava di teatro italiano che non mi piace per un carattere che sarebbe snob. E un paio di altre cose che un uccello in volo d’uccello sopra la pianta di Palermo non perderebbe tempo a ricordare.
La piazza dell’Olivella è accessibile da molti lati, come ricordavo vagamente e ho potuto invece appurare su GMaps. Ero lì, allo schermo della mia scrivania, che con un dito muovevo un’intera città a mio piacere, quando mi sono reso conto che mai, nelle mie visite di ritorno, ero rientrato nella piazza dalla stessa stradina da cui di solito entravo durante le passeggiate che ci facevo quando ci abitavo.
Non so più, seriamente a questo punto, se la storia nella quale mi sono venuto a cacciare, sia una storia del mio passato che in qualche modo torna faticosamente alla memoria, e alla forma del racconto rapsodico che forse gli sto dando, oppure se sia una storia modernissima di vita in rete, di uso della rete, raccontata nelle cose semplici, quelle che noi di rete consideriamo le cose di ogni giorno – usare GMaps per scoutare un posto, non mi viene termine migliore e mi trovo in una specie di trance che non voglio interrompere per cercarlo – una vita attuale, moderna di rete, di quotidianità di rete dove racconto senza bisogno di ipotizzare magie, amori favolosi, e tutti i trucchetti che di solito il cinema usa per inserire la cifra stilistica di modernità “internet”.
Non che importi a voi, ma a me un po’ sì, mentre col mouse mi spostavo nel tempo, tra passato e futuro se hai seguito la mia riflessione – che poi, mi sono detto, tutto ciò sarebbe appunto il presente, e se non lo è gli somiglia parecchio.
La piazza dell’Olivella si trova in un punto abbastanza particolare della città, mi verrebbe da dire, anche se non so più se sia veramente così, che magari qualcuno di Palermo avrebbe da ridire, ma per la storia di questa notte non è importantissimo, quindi continuo. Tra la parte buona, centrale e ricca della città, e l’inizio della città vecchia, col suo degrado così folkloristico, dei quartieri poveri e dall’aspetto abbandonato. Era un mondo oscuro e pericoloso nella mia percezione di allora, e forse anche nei termini in cui mi veniva presentato quando mi ci portavano.
Non era facile non dar retta a quelle storie, in ogni caso, anche se devo invitarti a diffidare di me. Proprio in base al testo che stiamo facendo insieme, io in trance e tu leggendo. Qui però devi diffidare: proprio il presupposto da cui son partito, la notte radiofonica e le storie che ti assorbono, dovrebbe farti pensare che io sono il tipo che difficilmente resiste alle storie, anzi al contrario sembro trarre un certo godimento dalla qualità seduttiva che hanno, alla quale mi abbandono volentieri, per quanto ne sai tu da quanto ti ho detto fin ora qui.
Quanto vale quindi il mio “non era facile non dar retta a quelle storie”? E quanto invece era realistico accettare un racconto dei quartieri che aveva molte corrispondenze con quanto si vedeva della piazza quanto finalmente ci arrivavamo dopo una bella passeggiata?
Corrispondenze? La piazza in un certo senso è dominata dalla chiesa detta, appunto, dell’Olivella. Una chiesa barocca la cui pianta e facciata sono chiarissime, qui su GMaps, nel mio viaggio a volo d’uccello. Ma non è questo che ha segnato l’immagine che me n’ero fatto io. La rendeva unica ai miei occhi, un certo marciapiede a forma irregolare, quasi triangolare, dal dislivello quasi insignificante, lungo il quale crescevano erbacce, e mattonelle spappolate che ne avevano costituito la pavimentazione interna originaria, e ancora la costituivano, per quanto ne so io, che da GMaps non si vede il dettaglio e non si vede nel passato – ancora? 🙂
Qualche macchina parcheggiava all’interno di quest’isola abbandonata. Oggi, per esempio, nella fotografia di GMaps, tutta quell’area della piazza è diventata un grande parcheggio, ordinato per motivi evidenti di sfruttamento dello spazio, come ci siamo abituati a considerare logico e normale, ma che invece allora non esisteva, essendo le macchine molto meno, e non avendo esse ancora la fame di parcheggio che hanno oggi – dunque venivano lasciate un po’ a casaccio, in modo disordinato diremmo oggi, ma allora non lo sembrava, per non si poteva capire l’esigenza di usare razionalmente il poco spazio disponibile.
Dunque su questo dettaglio del marciapiedino che ormai non si vede più, almeno dal territorio come lo fotografa GMaps, la mappa di Palermo offerta da Google e quella della mia memoria non coincidono, anche se raccontano la stessa cosa, e dunque sono sovrapponibili. ! . Anzi proprio il leggero scollamento tra l’una e l’altra dice della realtà qualcosa che una mappa sola non può dire, pensa te. Ecco: non era comune come oggi, allora, che le macchine parcheggiassero come cazzo gli pare, faceva ancora una certa impressione che invadessero spazi che una popolazione ancora ingenua, almeno in Italia, considerava adatti al pedone – ma a New York, visto che è già stata nominata, e non soltanto a causa del riferimento a Lou Reed, non è così nemmeno oggi, come allora a Palermo.
Lasciami la possibilità di abbandonarmi alle mie suggestioni, come se ancora stanotte, a questo punto, fossi soltanto un ascoltatore di RaiStereoNotte, invece che l’autore dei commenti che stai leggendo – 28 a questo punto? ma come ho fatto? – tra l’altro un po’ assonnato e con una gran voglia di piantarla qui.
Cosa me lo impedisce? Una certa fedeltà alle storie che ti trascinano, al teatro di Paolo Rossi, alla radiofonia notturna, alla difficoltà di non dar retta a certe storie, a tutto quello che si fa di notte.
Da continuare. E non è detto che non lo faccia davvero 🙂
[Gli spazi indicano i singoli post scritti, mi scuseranno quelli che hanno commentato se non li ho messi ma vorrei che potesse essere tutta d’un fiato così come è stata scritta]
Almeno so dove trovarla 🙂