AVVENTURE NIPPO-BUROCRATICHE
Pur essendo in Giappone da poco più di una settimana, ho capito una cosa: la burocrazia, qui, è la spina dorsale del Paese. Per intenderci, non sto parlando della polverosa, lenta, snervante burocrazia cui siamo abituati noi italiani (stile Manfredi in un pungente e ironico episodio di Made in Italy, un film di Nanni Loy del ’65 che consiglio a tutti di ri-vedere). Quella nipponica è burocrazia nel senso atavico del termine; citazione wikipediana: “dicesi burocrazia l’organizzazione di persone e risorse destinate alla realizzazione di un fine collettivo secondo criteri di razionalità, imparzialità, impersonalità”. Giappone allo stato puro.
Modulo – scadenza (da rispettare assolutamente) – permesso a procedere. Efficienza quasi imbarazzante ad occhi italiani, perfettamente normale in terra giapponese. Lo si intuisce in aeroporto di fronte all’esercito in uniforme degli addetti dell’ufficio immigrazione; ce ne si fa un’idea se, come la sottoscritta, si devono pagare tasse universitarie; lo si interiorizza solo in un momento topico, quello della richiesta dell’Alien Registration Card al municipio locale.
Di per sè non è nulla di complicato: si tratta di una tessera che viene rilasciata dal comune della città giapponese di residenza agli stranieri che decidono di permanere sul territorio giapponese oltre 90 giorni. Il problema sussiste quando non si parla una parola di giapponese e si gira per la città con un solo punto di riferimento in testa: “ok, il comune è vicino alla Sumitomo Mitsui Bank” ( :-0). Dopo aver chiesto a qualche passante, riesco a trovare l’edificio che corrisponde alla vaga descrizione fatta da alcuni compagni di corso. Entro, sventolando soddisfatta il mio modulo compilato a due impiegate che mi guardano stupite e mi fanno presente che quello non è il municipio. Dai loro gesti capisco solo che devo cercare in un grande edificio (“big building, big building!”), posto da qualche parte a sinistra. Dopo vari tentativi andati a vuoto (quella zona è piena di “big buildings”!), sconfortata, ma decisa a non demordere, varco la soglia dell’ennesimo palazzo e…finalmente ci siamo, è l’agognata city hall!
Alla reception mi dicono di andare a sinistra, continuare dritto, entrare in un altro edificio e una volta lì cercare la postazione 5. Mai come in questo luogo ho percepito finora la vicinanza con la gente locale. Non attraverso le parole o una comunicazione diretta, ma semplicemente osservandola: adorabili coppie di vecchietti in cui la moglie sorregge e guida dolcemente il marito alla sedia più vicina; bambini in braccio a mamme pazientemente in fila; nipoti che aiutano i genitori anziani a scegliere la fila giusta. Niente di più simile alla realtà cui sono abituata a casa mia, seppur con le dovute eccezioni: non c’è caos o rumore, nessuno supera nessuno, tutto è organizzato e la collettività viene prima del singolo.
Giunta alla mia postazione, non devo aspettare nemmeno un secondo: è già il mio turno. Vengo invitata a sedermi da un impiegato con una pettinatura da premio Oscar per originalità; descrivere i suoi capelli sarebbe riduttivo! Immaginate un Elvis Presley con occhi a mandorla; fatto? Bene, raddoppiate le dimensioni in orizzontale da entrambi i lati e forse potete averne una vaga idea. Mentre si muove agilmente tra una scrivania e l’altra di quel formicaio umano, il mio unico pensiero è scattargli una foto, ma, ripensando alla reticenza dei giapponesi a farsi fotografare in pubblico (argomento che merita un intero post), desisto. Sgargiante, esco da quel brulicante esempio di efficienza nipponica e ammiro il mio bel modulo timbrato.
C’è un detto tra gli studenti internazionali: “Se ce la fai in Giappone, ce la fai ovunque”. Missione compiuta (per ora!).