A story from Hiroshima

Durante il mio viaggio in Giappone sono stata ad Hiroshima; ho incontrato Matsubato-sensee e…

Con gli occhi chiusi, sul night bus che mi riporta ad Osaka, ripenso alla frase con cui il Prof. Scott ha congedato noi studenti qualche ora fa, all’interno del Peace Memorial Museum di Hiroshima. Ripenso alla minuta dolce figura di Matsubato-sensee e mi commuovo.

La rivedo entrare nella sala, sorridendo contegnosamente, in silenzio, zoppicando senza farsi notare troppo. Poi, un inchino profondo a tutti noi e si siede di fronte ad una piantina che illustra come l’onda radioattiva della prima bomba atomica lanciata contro l’umanità si sia propagata su  Hiroshima, la sua città.

Come una nonna ai suoi nipotini, Matsubato-sensee inizia a raccontarci la sua storia, il suo incubo. La sua vita “prima” era come quella di molte altre bambine giapponesi vissute durante la guerra. All’epoca aveva 12 anni e, pur abitando insieme alla sua famiglia nella campagna fuori Hiroshima, era stata mandata dai genitori a vivere all’interno di un santuario in città. Si pensava che i bambini fossero più protetti all’interno di templi e santuari, perciò venivano create delle piccole comunità dove veniva fornita loro assistenza, cibo e istruzione. Ogni giorno, nel cortile della “scuola” si facevano esercitazioni con bastoni di bamboo, per essere pronti ad un eventuale attacco del nemico. “Che ingenui eravamo!” commenta con un filo di voce Matsubato-sensee.

Alle 8.15 del 6 agosto 1945 il tempo si ferma a Hiroshima. Quei secondi, quei minuti, quelle ore si imprimeranno nella carne e nella mente di migliaia di innocenti per sempre. Matsubato-sensee ricorda tutto, ogni singolo fotogramma di quel giorno. Superando la tipica riservatezza giapponese, con un coraggio inimmaginabile, parla, parla, parla. Si alza in piedi, non riesce a stare seduta, vuole coinvolgere il più possibile il pubblico di commossi e attoniti giovani ventenni (per la maggior parte americani) che le sta di fronte. Senza fermarsi, con la voce tremante, ma salda allo stesso tempo ci racconta di atrocità infernali nel vero senso della parola.

Stava camminando con un’amica, Michiko, quel giorno; fantasticavano sulla loro vita di future giovani donne, quando, all’improvviso, la coda di un aereo e poi un rumore così assordante da far perdere i sensi ad entrambe. “Quando ripresi conoscenza, non riuscivo a vedere più niente, tutti sembravano polverizzati. Gridavo: “Michiko! Michiko!Dove sei?” non ottenendo nessuna risposta. Cercai di alzarmi, ma ero stata scaraventata a testa in giù nel terreno e avevo ferite e vetri conficcati in tutto il corpo” narra, commossa, la voce di Matsubato-sensee.                        Le palpebre si erano liquefatte, bruciata parte della pelle di braccia e gambe. Non rimaneva più nessuna traccia dei vestiti che indossava; solo brandelli di biancheria intima erano rimasti intatti.

Disperata e in cerca di acqua da poter usare per rinfrescare il corpo ustionato, si recò al fiume vicino. Michiko era lì, insieme a centinaia di persone urlanti, la sua faccia era irriconoscibile.                                                                             Aiutandosi reciprocamente, le due amiche cercarono di tornare a scuola, ma sulla via, Michiko, allo stremo delle forze, morì. Matsubato-sensee era sola ora. Scoprendo che la scuola era stata completamente distrutta, con le ultime forze rimaste, riuscì a raggiungere la sua casa, nella periferia della città.

“Sette mesi più tardi, ripresami per quanto fosse possibile, ricominciai ad andare a scuola. Pur avendo preso il diploma, però, non riuscivo a trovare nessun lavoro. La gente mi evitava quando salivo sull’autobus; guardando i segni lasciati dalle radiazioni sulla mia pelle, pensava fossi io stessa radioattiva. Non ho mai trovato qualcuno che volesse sposarmi e a tutt’oggi (a 65 anni) sono ancora single” dice con malinconia Matsubato-sensee.

Quel giorno morirono 350.000 persone. Alla fine del 1945, circa 140.000 persone perirono in seguito agli effetti delle radiazioni* e, a tutt’oggi (secondo la nostra testimone) ancora molti Hibakusha (così sono chiamati in giapponese i sopravissuti alla bomba atomica) soffrono per gli effetti dello scoppio della A-bomb.

“Lo Stato giapponese non ci ha fornito nessun tipo di aiuto; i pochi medicamenti che trovavamo li compravamo alla borsa nera. A volte non avevamo garze per medicare le ferite, quindi, usavamo pezzi di kimono, senza immaginare che, così facendo, le ferite si sarebbero infettate” racconta Matsubato-sensee, sul finire della sua testimonianza.      “Per far sì che non ci siano più un’altra Hiroshima e un’altra Nagasaki, tutti i popoli del mondo devono impegnarsi nell’eliminazione delle armi nucleari, tanto più che ora il loro potere distruttivo è molto più grande rispetto al passato. La città di Hiroshima sta facendo molto in questo senso, ma dobbiamo contribuire tutti.” dice accorata la nostra testimone.

Durante il mio viaggio in Giappone, sono stata ad Hiroshima; ho incontrato Matsubato-sensee e… ho conosciuto una piccola grande donna con un’indescrivibile forza di combattere per la vita, ieri come oggi.

Il minimo che potessi fare era raccontare la sua storia, la “storia di Hiroshima”.

 

A-bomb Dome, Hiroshima

A-bomb Dome, Hiroshima

 

* i dati  sono riportati alla pagina http://www.pcf.city.hiroshima.jp/frame/Virtual_e/visit_e/west.html del sito internet del Peace Memorial Museum di Hiroshima.